ASSOCIAZIONE AMICI DEL MUSEO PEPOLI  -  Trapani

 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le origini della famiglia risalirebbero al re Arvaldo VI d’Inghilterra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A Firenze frequentò lo studio di Giovanni Duprè.

 

si cimentò nella scultura, eseguendo due ritratti a mezzobusto di Leonardo Ximenes

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il conte Pepoli verso il 1870, poco più che ventenne, si trasferisce ad Erice, e si dedica alla ricerca di materiale archeologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ad Erice soggiornava spesso, soprattutto in estate, e riceveva amici illustri, come si deduce da vecchie foto e da numerose lettere del suo archivio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amareggiato e deluso il conte cominciò a staccarsi lentamente da Erice, fino a trasferire a Trapani tutto il materiale archeologico da lui raccolto, che poi sarebbe confluito nel Civico Museo da lui fondato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

gli  venne riconosciuta dal tribunale di Bologna la discendenza da Gioacchino Napoleone Pepoli, nipote di Napoleone Bonaparte.

In base a questa discendenza  Agostino acquisisce il titolo di conte: il suo era barone.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agostino Pepoli, spinto dall’amore per l’antichità e l’arte, nel XIX secolo si dedica a raccogliere e a collezionare materiale archeologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’inventario e le stime degli oggetti di Palermo vengono fatti alla sua morte dallo scultore d’avorio Antonino Allegra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1858 lo zio Michele morì, Agostino aveva  dieci anni. Michele lascia l’intero patrimonio e la collezione ai nipoti  Antonio, Agostino e Fabrizio, mentre ai fratelli Riccardo e Antonio va l’usufrutto dei beni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La collezione bolognese, donata con il palazzo al comune di Bologna, con l’obbligo di istituire un museo, è andata purtroppo in gran parte dispersa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1906 il conte finalmente ottiene i locali dell’ex convento dei Carmelitani di Trapani e vi trasferisce la sua collezione privata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Progetto Scuola Museo 2011-2012

La cultura della musealizzazione dall'800 ad oggi:

il conte Pepoli racconta la sua storia di collezionista

Agostino Pepoli

dalle collezioni al Museo

 

di

Lina Novara

 

AGOSTINO PEPOLI: UOMO E COLLEZIONISTA

Agostino Pepoli (Trapani 5 agosto 1848 – 23 marzo 1910), appartenente ad una nobile famiglia originaria di Bologna, figura emblematica di intellettuale…, riassume i caratteri più tipici dello studioso curioso (Famà 2004); “appassionato ed inquieto, collezionista e mecenate” (Frammenti 1994), impegnato in vari settori, fu pure scultore, architetto, restauratore ed anche compositore.

Agostino Maria Alberto Sieri Pepoli era barone di Culcasi, Casale, Mangiadaini, Xaurini, Castellazzo, Ardigna, Ardignotta, Bovara, Marzucchi, di San Teodoro.

Numerosi suoi antenati ebbero ruoli importanti nella vita politica e amministrativa della città di Trapani e nella Sicilia Occidentale.

Le origini della famiglia, secondo Pietro Giustiniano, autore del Compendio Historico genealogico della famiglia Sieri Pepoli del Regno di Sicilia, datato 1700, risalirebbero al re Arvaldo VI d’Inghilterra che  nell’874, in occasione di un viaggio a Roma per visitare i Luoghi Santi,  avrebbe lasciato  a Bologna il figlio Giovanni, perché ammalato. Questi, sposatosi in seguito con una nobildonna bolognese, diede inizio al ramo italiano della famiglia.

Nel 1297 Covino I, figlio di  Sigerio I,  ebbe la nomina da re Manfredi di castellano di Trapani (governatore militare e amministrativo), per se e per il figlio, come premio fedeltà  e per i servizi resigli.

Fu così che i Pepoli giunsero in Sicilia e, a ricordo di Sigerio, forse aggiunsero al cognome Pepoli il patronimico di Covino I : filius Sigerii.

Il cognome Sieri, secondo Agostino fu un’appropriazione errata e ne tentò invano la cancellazione.

Già nel doppio cognome troviamo quindi la storia della famiglia.

Agostino era il figlio secondogenito di  Riccardo  dei baroni di S. Teodoro e di Elisabetta Alagna.

Vivace ed ironico, di spirito libero ed indipendente, da piccolo era poco incline agli studi che intraprese  a Palermo nel convitto gesuitico, dove teneva una condotta inquieta  e non si applicava come avrebbe dovuto; ciò si evince da una scheda inviata al padre Riccardo dal rettore del convitto tra marzo e aprile1858.

E lo stesso Agostino che mal sopportava la vita di collegio e le restrizioni, nell’agosto dello stesso anno scrive: al padre: “ mi sono ripigliato dachè sono uscito dal convitto, ove si sta veramente male….; dal giorno che uscì da Convitto sono un altro.  

Ed in convitto Agostino non volle tornare, si sentiva come morto, e insistette tanto, finché lo zio Fabrizio, divenuto nel frattempo suo tutore, in seguito alla morte del padre Riccardo nello stesso anno 1858, lo trasferì a Siena nel convitto Tolomei con il fratello minore Fabrizio.

Diciamo che a Siena si sentiva vivo: nel 1864 era iscritto alle scuole di disegno, di scherma, di cavallerizza e di ballo; dava sussidi volontari al violinista Franci, al fotografo Lombardi  per avere eseguito trenta ritratti a lui e al fratello Fabrizio.

Dopo gli studi liceali nel collegio di Siena lo troviamo prima a Firenze e poi a Bologna dove, “approfondì gli studi di storia, filosofia ed arte, ma non conseguì mai una laurea”.

A Firenze frequentò lo studio di Giovanni Duprè  (Siena, 1º marzo 1817 Firenze, 10 gennaio 1882) uno scultore  oscillante tra il naturalismo e l’accademismo, ma in ogni caso, padrone della tecnica scultorea e capace di realizzare opere di alta qualità. Sue sono le statue di Giotto e di Sant'Antonino (1844) per il loggiato degli Uffizi, che esprimono vitalità, sia pure con uno stile ruvido, ma spontaneo.

Mettendo a frutto gli insegnamenti del Duprè si cimentò nella scultura, eseguendo, mentre era a Firenze, due ritratti a mezzobusto di Leonardo Ximenes, uno in gesso, l’altro in marmo, destinati rispettivamente al “ Real Liceo della città” e alla Biblioteca  Fardelliana, nei quali dimostra una ricerca del dato naturalistico ed una adesione ai caratteri fisionomici dello Ximenes, ricavati da stampe o disegni settecenteschi, visti forse a Firenze  dove nel 1756  Ximenes aveva fondato l'Osservatorio astronomico di "San Giovannino" (o Osservatorio Ximeniano), cui dedicò gli ultimi anni della sua vita e che oggi, pertanto, porta il suo nome.

Come scultore Pepoli si cimenta ancora nel mezzobusto in gesso di Luciano Spada, oggi collocato nella scala di accesso alla Biblioteca comunale Vito Carvini di Erice, un’opera un po’ convenzionale  e per certi versi mediocre, con “ingenui tentativi di resa naturalistica” nel volto (Riccobono 2004, p. 50).

Migliore è il suo ritratto in marmo, sistemato nel giardinetto antistante l’ingresso del Museo, nel quale dimostra padronanza tecnica e cura nel modellato: si ritrae con barba e folta chioma, con farfallino, giacca e soprabito dai morbidi risvolti.

Di quest’opera probabilmente Giuseppe Croce eseguì disegni per la realizzazione dell’alto plinto su cui collocarlo.

Potrebbe essere del Conte un disegno a china esistente tra i documenti d’archivio, riproducente un fregio che si trovava in una fabbrica del foro di Trapani, poi sul muro del giardino del palazzo del principe Aldobrandini.

Fu anche architetto!  Vincenzo Scuderi attribuisce al Pepoli il disegno del bevaio posto in via Agostino Pepoli, nei pressi del santuario dell’Annunziata, un’architettura eclettica dei primi del Novecento, dove si intrecciano reminiscenze medievali, romaniche e gotiche, e motivi moreschi e rinascimentali, tra i quali fa bellavista di se lo stemma Pepoli, più volte ripetuto.

Il conte Pepoli verso il 1870, poco più che ventenne, si trasferisce ad Erice, e si dedica alla ricerca di materiale archeologico.

In precedenza era solito salire ad Erice con l’amico  Giuseppe Polizzi, dilettante archeologo, per fare qualche acquisto di “cose antiche”.

 La sua prima residenza ericina fu in una piccola casa tra la via Sales e la via Guarnotti, di proprietà del muratore ericino Giuseppe Simonte, uomo di fiducia del Pepoli e suo collaboratore nell’opera di restauro delle torri, dove andò ad abitare non appena ultimati i lavori.

Intorno al 1871 prese infatti contatti con il Comune per la concessione del parco dei Runzi e delle semidirute torri avanzate del castello, che restaurerà “sul gusto antico”, rifacendosi ai disegni di Matteo Gebbia, inseriti nel manoscritto di Vito Carvini (1682), dopo averle ricevute in concessione enfiteutica nel 1872; modificherà l’assetto dello spazio circostante con una spianata per arrivare tramite una stradella alla parte occidentale del castello, e sistemerà quello che oggi è il giardino del “balio”.

L’intervento di restauro del Pepoli suscitò enormi critiche, ma con ferma volontà e con il sostegno degli amici egli portò a termine il suo proposito intorno al 1880.

In quegli stessi anni fece costruire la cosiddetta Torretta Pepoli, un edificio eclettico, dalle forme vagamente liberty, dove si ritirava a studiare e a meditare con amici e studiosi

La formazione umanistica, l’amore per la cultura, per l’antichità e l’arte lo indussero  a raccogliere un numero considerevole di reperti ericini con la stessa passione che aveva spinto Antonio Cordici nel ‘600 a raccogliere tante “anticaglie”.

Dal castello e dalla forra sottostante, chiamata volgarmente i Runzi, proviene quasi tutto il materiale rinvenuto dal Pepoli che nel 1885 così riferisce: “Sottostante il muro di cinta del mio castello che già da più anni ho pazientemente  intrapreso a restaurare …, a sinistra della piccola porta che dà adito al nuovo parco dei Rovi (Runzi) … esisteva per molti e molti metri un ammasso di terra che … altro non era  che un vasto deposito di avanzi di cucina, ricchissimo di frantumi di anfore e di pàtere …, composto di ceneri di carboni, ossa di animali, frammenti di vasi diversi” (Pepoli 1885, p. 28).

Lo stesso conte indica la quantità del materiale ritrovato: 3.810 anse anepìgrafe ricurve; 620 rettangolari; 1.954 coni d’anfore; 800 iscrizioni anforiche, innumerevoli frammenti di pàtere con iscrizioni graffite.

Fa inoltre un’ampia disquisizione sui bolli e sui graffiti rinvenuti e li riproduce anche graficamente nell’opera Antichi bolli figulini e graffiti delle sacerdotesse di Venere Ericina, rinvenuti in monte San Giuliano.

A proposito di quest’opera va ricordato che essa venne pubblicata in tutta fretta dal conte nel 1885 avendo egli saputo che il preside del Liceo Classico di Trapani, Astorre Pellegrini, alla cui attenzione aveva posto le iscrizioni, le stava per pubblicare.

“Con fine ironia e signorilità di razza” come sottolinea Nicolò Rodolico, il Pepoli dedica proprio al Pellegrini il suo saggio.

Ad Erice soggiornava spesso, soprattutto in estate, e riceveva amici illustri, come si deduce da vecchie foto e da numerose lettere del suo archivio:

Lo studioso ericino Giuseppe Pagoto, docente di lettere, storico e agricoltore   (1875  – 1971) come si legge  sulla lapide posta sulla parete esterna della sua casa, in via S. Spirito ad Erice.

Samuel Butler (Langar Rectory, 4 dicembre 1835 Londra, 18 giugno 1902), lo scrittore inglese noto per le analisi sulla ortodossia cristiana, per lo studio dell'evoluzione e dell'arte italiana e per gli scritti di storia e critica letteraria. Butler fu anche traduttore della Iliade e dell'Odissea.

Antonino Salinas (Palermo, 19 novembre 1841 Roma, 7 marzo 1914), numismatico e archeologo, docente ordinario di Archeologia (1867), e dal 1873 direttore del Museo Archeologico di Palermo. Al Salinas lo legò una lunga amicizia: con lui discuteva di archeologia, cercava ad Erice materiali archeologici; insieme scoprirono i segni alfabetici incisi sulle mura di Erice.

Come Pepoli, Salinas lasciò al museo poi intitolatogli, la sua collezione privata, tra cui i molti libri e circa 6.000 monete da lui raccolte.

Antonio Scontrino (Trapani, 17 maggio 1850 Firenze, 7 gennaio 1922), compositore e contrabbassista, particolarmente dotato per la musica sinfonica da camera, scrisse tra l'altro la “sinfonia marinaresca” e “la sinfonia romantica”, oltre a pezzi da camera, romanze, e musiche di scena per “Francesca da Rimini” di D'Annunzio.

Dei suggerimenti e dei consigli di Antonio Scontrino il conte si avvalse  per la composizione del melodramma in tre atti Mercedes, cui attese tra il 1892 e il 1893, nata  “per una quasi scommessa … volendo provare che è più facile ad un macellaio, dotato delle qualità musicali, trovare un bello spunto di melodia, che a un dotto e sperimentato contrappuntista, cui natura non diede il lobo dell’invenzione”.

Libretto e spartito per canto e pianoforte  furono pubblicati a Bologna nel 1893; sei anni dopo il conte tentò di far andare in scena l’opera a Bologna, al teatro Brunetti, ma una controversia sorta tra l’impresario e gli interpreti mandò all’aria la cosa;  l’opera che tratta delle vicende amorose e dei pentimenti riparatori  di tre personaggi: Mercedes e Pedrito, Nina ed Annio,  fu rappresentata al teatro Garibaldi di Trapani il 23 marzo 1907, esattamente tre anni prima del giorno della sua morte; fu la sola ed unica volta  che l’opera andò in scena.

Agostino avrebbe voluto sistemare tutto il materiale rinvenuto ad Erice, nel Quartiere Spagnolo ma la proposta, avanzata al Comune della vetta, non venne approvata in quanto l’oligarchia liberal moderata nella quale il Pepoli non si era mai inserito, si oppose.

Amareggiato e deluso il conte cominciò a staccarsi lentamente da Erice, fino a trasferire a Trapani tutto il materiale archeologico da lui raccolto, che poi sarebbe confluito nel Civico Museo da lui fondato. Significativa, a questo proposito, è la frase del prof. Vincenzo Adragna, nel saggio A. Pepoli, mecenate ed amico di Erice: “Il mecenate tornava a Trapani ed Erice perdeva un amico di cui tanto l’antica città avrebbe avuto forse bisogno e che tanto avrebbe voluto e potuto fare” (Adragna 1961, p. 3)

Agostino si da successivamente ai viaggi in Italia e a all’estero, portando sempre da questi viaggi oggetti d’arte, monete, pergamene e quant’altro ritenesse valido ad incrementare le sue raccolte; andò anche in Egitto in occasione dell’apertura del Canale di Suez.

Tra il 1871 e il 1875 fece parte della giunta comunale di Trapani e tra il 1879 e il 1880, fu membro della Commissione Conservatrice di Belle Arti. Proprio durante questa carica (1879) propose lo scultore Duprè per la realizzazione del monumento a Vittorio Emanuele II, che il  Consiglio Comunale di Trapani aveva decretato di far erigere.

All'indomani dell'Unità d'Italia, al fine di "fare gli italiani", in tutta la penisola fu attuato un programma celebrativo dei tre "simboli" dell'Unità - Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II - e tutte le città italiane si attivarono in tempi e modi diversi per realizzare busti e monumenti urbani,  rispondenti  a modelli iconografici  predefiniti.

Il Duprè, proprio un anno prima, aveva realizzato il Monumento a Cavour (1878) a Torino, opera convenzionale e per certi versi mediocre.

Tra il 1887 e il 1890 è a Bologna dove acquista il palazzo dei suoi avi (l’ultimo era stato il conte Ferdinando) e lo trasforma in una casa-museo; la raccolta bolognese, oltre ad opere d’arte, comprendeva oggetti di ogni tipo, tappeti turchi, divani, velluti, ventagli ed anche un intero coro ligneo di chiesa.

Collocato all'inizio di via Castiglione è formato da alcuni antichi edifici  che nel loro insieme hanno l'aspetto di un castello fortificato. L’origine risale a Taddeo Pepoli, primo Signore di Bologna che  fece costruire nel 1344 una parte di questi edifici, con circa 200 stanze, cortili e logge.

Davanti, scorreva all'aperto il torrente Aposa (oggi sotterraneo) e per entrare all’interno del palazzo si dovevano attraversare dei ponti levatoi, come testimoniano gli anelli in ferro murati su palazzo Pepoli, usati, prima della tombatura del canale, per ormeggiare barche e chiatte.  Sotto un tratto del cornicione merlato e nella ghiera del portale di sinistra è dipinta una fascia a quadri bianchi e neri, disposti a scacchiera come lo stemma dei Pepoli. La facciata, imponente e massiccia, segue l'angolazione della strada e culmina con dei merli.

Vi si aprono finestre con archi ad ogiva. All'estremità del palazzo verso le due torri, fu aggiunto un piccolo ed elegante edificio con portico ed alcune finestre gotiche e bifore. Come oggi si presenta è il risultato di numerose addizioni e stratificazioni architettoniche: recentemente è stato restaurato dall’architetto Mario Bellini ed ospita il museo civico Genius Bononiae, inaugurato il 28 gennaio 2012. 

Nel 1910, alla morte di Agostino Pepoli, il palazzo venne ceduto al Comune con l’obbligo di renderlo aperto al pubblico, permettendo di ammirare le sue collezioni d’arte, ma nel 1913-1914 l’edificio fu venduto alla Cassa di Risparmio che già dal 1910 aveva acquisito da privati altre parti del complesso.

In base alla ricostruzione genealogica fatta da Agostino, gli  venne riconosciuta dal tribunale di Bologna la discendenza da Gioacchino Napoleone Pepoli, figlio del marchese Guido Taddeo Pepoli e della principessa Letizia Murat, figlia di Gioacchino Murat e quindi nipote di Napoleone Bonaparte.  Attivo nelle rivolte del 1848, dal 1866 al 1868  Gioacchino fu sindaco di Bologna e il 12 marzo 1868 venne nominato Senatore del Regno.

In base a questa discendenza  Agostino acquisisce il titolo di conte: il suo era barone.

Collezionare opere d’arte per i Pepoli era una passione di famiglia.

Il padre di Agostino, Riccardo (1794- 1859) e lo zio Michele (1786-1858) erano dei collezionisti.

L’altro fratello, Fabrizio (1785-1866), acquisì le collezioni dei fratelli, come vedremo in seguito.

Collezionare “oggetti” di diverse categorie, raccoglierli, ordinarli ma anche catalogarli ed esporli è stata in passato una prerogativa delle classi abbienti ed intellettuali, spesso legata al fenomeno del mecenatismo. Manifestatosi già nell’antico Egitto e diffusosi a Roma nel II secolo a. C. come raccolta di oggetti preziosi, il collezionismo viene praticato per motivi culturali, estetici, affettivi, per passione, per divertimento, ma talvolta, anche per lucro.

Nel secolo XVII diviene un fenomeno europeo ed il cardinale Richelieu  raccoglie nella sua casa circa 500 pezzi, tra dipinti e antiche sculture.

In Sicilia compare a Messina nel secolo XVI con Antonio Ruffo e con  il nobile e colto Giovanni Pietro Villadicane che raccoglie soprattutto monete e suppellettili antiche.

Nel XVII secolo a Catania i Benedettini fondano il primo museo, e a Palermo i Gesuiti istituiscono il “Museo Salnitriano” dal nome del fondatore, padre Salnitro.

Il secolo XVIII vede sorgere importanti collezioni come quella di Lancillotto Castelli a Palermo e del principe Ignazio Paternò di Biscari a Catania; nel secolo successivo si formano le collezioni di Giuseppe Cacòpardo a Messina, di Corrado Ventimiglia e Agostino Gallo a Palermo, di Raffaello Politi ad Agrigento e dei Pepoli a Trapani.

La presenza ad Erice di numeroso materiale archeologico – preistorico, elimo, punico, greco e romano - offre lo spunto a intellettuali e nobili, a partire dal secolo XVII, per raccogliere monete e “anticaglie”, termine con il quale si definivano gli oggetti del passato.

Così Antonio Cordici  inizia nella prima metà del secolo XVII, per motivi affettivi, a collezionare nella sua casa monete e oggetti archeologici; Francesco Hernandez, sensibile al gusto per l’antichità e alla bellezza classica, nel XVIII secolo segue per passione la scia del Cordici; Agostino Pepoli, spinto dall’amore per l’antichità e l’arte, nel XIX secolo si dedica a raccogliere e a collezionare materiale archeologico.

Non si hanno notizie di collezioni presso Antonio Pepoli, nonno di Agostino, anche se il Di Ferro nella Guida per gli stranieri in Trapani riferisce della presenza nella casa del barone di San Teodoro, di un  presepe con un “gran numero di figure marmoree di uomini e di cavalli…, alcuni manoscritti, ammirevoli per la lindura  della membrana,  e per quelle capilettera di brillante eleganza, dorate di oro e fregiate di miniature” .

Grande influenza forse avevano suscitato sui due fratelli Riccardo e Michele, le amicizie con nobili collezionisti  di Palermo, dove avevano studiato e si erano laureati in diritto civile e canonico,  e anche la frequentazione a Trapani degli Hernandez con i quali erano imparentati in quanto Francesco Hernandez sr. nel 1775 aveva sposato Virginia Sieri Pepoli, sorella del padre Antonio.

Riccardo, intenditore d’arte e appassionato di archeologia, in particolare di numismatica, possedeva un medagliere greco e romano, era amico di Giovan Battista Fardella, collezionista, che gli inviava da Napoli quadri per la pubbica pinacoteca da lui fondata. 

L’altro fratello Michele, “uomo studiosissimo”, autore di volumi e traduzioni, aveva raccolto durante il soggiorno palermitano “una ricca e pregevole collezione” eterogenea, formata da ceramiche italiane ed estere, dipinti, sculture e oggetti di ogni genere, per lo più di provenienza antiquaria  (Di Ferro 1825, p. 312).  Ciò si ricava dal suo testamento. Sebbene a Palermo vivesse in due stanze di una locanda, aveva accumulato un gran numero di oggetti, sicuramente sistemati senza criteri museali. L’inventario e le stime degli oggetti di Palermo vengono fatti alla sua morte dallo scultore d’avorio Antonino Allegra. 

La raccolta di maioliche e porcellane comprendeva oggetti di varia funzione: “bornie romane, palle veneziane, vasi abruzzesi e di Faenza, terraglie di Napoli, vasi e pentole arabi, porcellane di Sasonia, porcellane cinesi e giapponesi. Tra le altre opere una “figura di Sassonia, denotante pastore che suona il flauto. Ancora diversi oggetti in rame, pietra, vetro, avorio, ed un piccolo tempio greco di madreperla, un’immagine dell’Immacolata di avorio, undici pastori di avorio, un cavallo di bronzo con cavaliere, opera identificabile con il bozzetto bronzeo di Giacomo Serpotta, eseguito per il monumento di Carlo II, eretto nel 1679 a Messina; rispondente alla tipologia barocca del monumento equestre è un’opera particolarmente significativa, sia per l’aspetto artistico che documentario: è l’unica in bronzo dello scultore che ci sia pervenuta, ed è anche la sola documentazione rimasta del monumento messinese, distrutto durante i moti antiborbonici del 1848.

Il pittore Luigi Pizzillo valuta i quadri: circa 300 opere che vanno da dipinti su tavola e tela o altri materiali, ma anche disegni su carta o cartoncino, con soggetti sacri o paesaggi.

Di Michele erano i due dipinti, oggi  al Museo, raffiguranti nature morte: uno con porcellini d’India, l’altro con colombi, attribuiti al napoletano Aniello Ascione (documentato dal 1680 al 1708), allievo di Giovan Battista Ruoppolo, del cui repertorio predilesse la rappresentazione di frutta ed uva sapendo ritrarle, come narra il De Dominici che ben lo conosceva, «con amenità di colore assai vago, e che però tira assai al rossetto d’alacchetta».

Nei due dipinti trapanesi, uno con porcellini d’India, l’altro con colombi, la composizione lascia libero uno sfondo di cielo, una pacata luce sfiora la frutta evidenziandone le diverse tonalità cromatiche già in parte assorbite dalla penombra che avvolge la profondità. L’impasto cromatico, soffuso di tonalità rosate, il delicato gioco di chiaroscuri, portano al confronto con altre tele del maestro, immerse in una penombra dorata che fonde e attenua le tonalità dei frutti maturi.  Simbolo di pace, il fico associato alla vite e ai due colombi, allude alla pace e alla tranquillità.

I porcellini d’India e i colombi che caratterizzano le due composizioni, sono inoltre simbolo di fecondità e fertilità: in quanto animali proliferi alludono all’abbondanza, come il melograno.

Alla collezione di Michele appartenevano: una Madonna  con Bambino a chiaroscuro e la serie di sei Puttini alati, dipinti a monocromo, forse dei bozzetti preparatori  per opere  da eseguire su un modulo più grande, riferiti al napoletano Francesco De Mura (1698-1782); la Deposizione nel sepolcro, una piccola tavola  (cm.51x33) di scuola emiliana del secolo XVI; una copia dell’Ecce Homo da Correggio, eseguita dal trapanese Giuseppe Mazzarese, e una Sacra Famiglia con Sant’Elisabetta, da Rubens; i quadri raffiguranti il Palazzo reale di Palermo e il Castello a mare di ignoto pittore del secolo XVIII; la cosiddetta Madonna Pepoli, non ben definita nell’elenco, ma identificabile, nella bella tavola con Madonna con il Bambino ed Angeli reggicortina (1435-1450), un’opera forse importata dalla Spagna che, per esuberanza decorativa e per eleganza di linee e di colori, viene attribuita ad un maestro valenziano, operante sul finire della prima metà del secolo XV, (nell’ambito di Ramon de Mur o Pedro Nicolau).

La pala è un tripudio di colori, di linee, di fiori stilizzati: domina il rosso che si trova nel drappo sostenuto dai due angeli e, in una tonalità più forte, nel prezioso  vestito del bambino. La Madonna  è raffigurata in trono, nell’atto di mostrare lo stemma di San Bernardino: la sua figura  è messa in risalto dal largo mantello double face, verde internamente, nero all’esterno con larghi fiori dorati, impreziosito da gale nei bordi.

Nel 1858 lo zio Michele morì, Agostino aveva  dieci anni. Michele lascia l’intero patrimonio e la collezione ai nipoti  Antonio, Agostino e Fabrizio, mentre ai fratelli Riccardo e Antonio va l’usufrutto dei beni.

Alla fine dell’anno la collezione fu trasferita a Trapani nella casa dei Pepoli, nell’attuale corso Vittorio Emanuele, dove abitavano Riccardo con i figli ed il fratello Fabrizio, celibe.

Il padre di Agostino, Riccardo, diventa così il depositario della collezione di Michele, lasciata a figli minorenni, e aggiunge alla sua quella del fratello.

Nella Tavola Famiglia Pepoli – ramo principale di Trapani, fatta stampare da Agostino nel 1886 e conservata presso l’Archiginnasio di Bologna, si legge che nella collezione vi erano “più di milleduecento quadri, fra i quali non pochi di molto valore, moltissimi vasi di Urbino, Castel Durante, Faenza, Cafaggiòlo e degli Abruzzi; magnifici vetri di Murano, vasi arabi, bronzi, avori, vasi fittili, e antiche porcellane di Sassonia, Vienna e Capodimonte; ed una collezione di monete, greche di Sicilia, imperiali romane, e medievali italiane.   

Non conosciamo i criteri con cui la collezione fu ordinata, presumibilmente i quadri ricoprivano completamente i muri; e gli altri oggetti erano disseminati tra le varie stanze.

Pensiamo ad una specie di wunderkammer dove erano raccolte anticaglie, naturalia, mirabilia, opere eterogenee per fattura, qualità e provenienza.

Naturalia erano “un uovo di struzzo con suo piedistallo d’ argento, ... due zuccareri di cocco ingastati d’argento… un uccello imbalsamato” (Inventario testamentario di Fabrizio, redatto  alla presenza di Andrea Marrone, Pietro Croce e Giuseppe Marceca, orefice).

Mirabilia erano oggetti rari e curiosi, indigeni e stranieri, come alcuni manoscritti, che sorprendevano l'osservatore “per la lindura  della membrana,  e per quelle capilettera di brillante eleganza, dorate di oro e fregiate di miniature” (Di Ferro 1825, p. 312)

Alcuni oggetti d'arte sicuramente provenivano dal mercato antiquario, altri, la maggior parte, erano prodotti dell'artigianato locale del corallo, dell'avorio, del legno tela e colla, dell'ambra, della madreperla (Novara 1997); tra questi un Crocifisso e un San Sebastiano in “pietra incarnata” (sec. XVIII,  entrambi ora al Museo)  attribuiti al trapanese Andrea Tipa, esperto, come il fratello Alberto, nella lavorazione di questa particolare pietra locale: un marmo alabastrino di colore beige-rosato con varie venature che vanno dal grigio al nero, al rosso bruno, e che imitando le lividure della pelle, veniva utilizzato per realizzare espressive statuette di  Cristo in croce, deposto o flagellato (Novara 2009).

Come tutte le raccolte pubbliche o private che accoglievano oggetti di “arti minori”, soprattutto nell’Italia meridionale, conteneva quell’esemplare di presepe con un “gran numero di figure marmoree di uomini e di cavalli…, (menzionato dal Di Ferro 1825, p. 312).

Alcuni quadri probabilmente erano stati acquistati a Napoli tramite il Fardella cui era legato da  amicizia.

Ma un anno dopo la morte di Michele, nel 1859 muore anche Riccardo: i tre figli minorenni Antonio (di 14 anni), Agostino (di 11) e Fabrizio  sono gli eredi universali, tranne che per la sua collezione e i suoi libri che Riccardo lascia invece al fratello Fabrizio, esprimendo però, nel testamento, il desiderio che Fabrizio,  a sua volta, ne facesse dono a chi dei tre ragazzi si fosse distinto nello studio e nella condotta. ( e non era sicuramente il caso di Agostino).

Il barone Fabrizio nel 1861 diventa l’unico tutore dei nipoti, in quanto la madre di Agostino, Elisabetta Alagna , si risposa con Nunzio Marini e perde la tutela dei figli.

In quel momento quindi Agostino che aveva 13 anni era il destinatario soltanto di un terzo della collezione dello zio Michele, in quanto il padre aveva lasciato la sua collezione al fratello Fabrizio.

Questi nel 1866 muore! Agostino ora di anni ne ha ora 18, ma non eredita nulla della collezione paterna perché lo zio Fabrizio, la lascia ad Antonio, fratello maggiore di Agostino, assieme ai suoi oggetti.

Solo intorno al 1877 Agostino, a quasi trent’anni, verrà in possesso della parte della collezione dello zio Michele, ma già aveva iniziato come sappiamo le sue collezioni: nel 1868 infatti dona al Gabinetto di Storia Naturale di Trapani, retto dal professor Cascio Cortese, amico del padre, una collezione di 14 cassette d’insetti, classificati per famiglie (Sola 1997).

Forse già da allora aveva cominciato a coltivare un grande sogno: quello di istituire un museo cittadino.

Nel 1875, dopo avere partecipato all’Esposizione storica artistica della Pinacoteca Fardelliana con 44 opere tra porcellane, vetri, medaglie, una portantina del ‘600 e quattro dipinti, manifestò la volontà di donare la sua collezione, formata da 2.350 oggetti d’arte e d’antichità, al Municipio di Trapani con lo scopo di istituire un museo civico (Sola 1977), a condizione che si trovassero dei locali idonei. Sebbene fossero stati indicati quelli della chiesa di S. Maria del Gesù, la proposta del Pepoli rimase senza esito.

Il conte dimostrava con questo suo gesto di possedere una grande e aggiornata apertura mentale, pensando ad una destinazione pubblica della sua raccolta, non limitata alla fruizione dei soli specialisti e amatori, ma estesa a tutta la cittadinanza.

Agostino riprende i suoi viaggi, durante i quali incontra studiosi, intellettuali ed altri collezionisti e assume il suo domicilio legale a Bologna  nel palazzo acquistato nel 1890, che trasforma in una casa Museo con migliaia di oggetti, di varia provenienza e di varia tipologia, in gran parte reperiti nel mercato antiquario di Bologna, considerata a quei tempi “ la mecca degli antiquari”.

La collezione bolognese, donata con il palazzo al comune di Bologna, con l’obbligo di istituire un museo, è andata purtroppo in gran parte dispersa.

Dalle foto conservate al museo (Sola 1997) si riconoscono  La Deposizione nel sarcofago, di scuola emiliana del secolo XVI, su tavola, che faceva parte della collezione dello zio Michele ed il Busto Reliquiario con Santa, probabilmente acquistato da Agostino, riferibile ad un intagliatore tedesco della prima metà del secolo XIV. Questo particolare e raro manufatto, in legno ricoperto di tela e poi dipinto e dorato, verosimilmente proviene dalla chiesa di Sant’Orsola di Colonia, dove sono conservati cento busti stilisticamente ed iconograficamente analoghi (1330-1340), contenenti le reliquie di altrettante vergini, martirizzate dagli Unni dopo un pellegrinaggio da esse fatto a Roma sotto la guida di Sant’Orsola.

Alcuni oggetti della collezione bolognese sono ancora reperibili tra l’Archiginnasio di Bologna, il Museo Civico Medievale, il Museo d’arte Industriale  e il Museo del Risorgimento: si tratta di disegni, incisioni ed acqueforti,  dipinti cinquecenteschi ed un ritratto femminile, alla maniera di Lavinia Fontana (all’Archiginnasio); presso le collezioni comunali d’arte  sono dipinti tra cui il ritratto di Gonfaloniere di Artemisia Gentileschi (1622), ceramiche, mobili e due boccali del XVIII secolo con stemma di famiglia; al Museo d’arte Industriale  arredi, suppellettili e una berlina di gala tardo settecentesca; ceramiche  e vetri al Museo Civico Medievale; una palla di cannone austriaco, lanciata su Bologna nel 1840, un fregio per copricapo militare, i ritratti di Napoleone I, di Pio VII e il busto di Gioacchino Pepoli al Museo del Risorgimento.

Della collezione trapanese del Pepoli  facevano parte; la Santa Caterina d’Alessandria (prima metà sec. XVII), del pittore trapanese Giacomo Lo Verde, allievo di Pietro Novelli; due Angeli reggi cortina (primi XVI secolo); due tavole con Madonne fiamminghe o fiammingheggianti; un rilievo su tavola del primo ‘500, con reminiscenze gotiche, di artista meridionale; la Madonna con  Bambino e S. Anna di Domenico la Bruna.

Un oggetto singolare è il guscio di conchiglia con San Michele nell'atto di scacciare il demonio, tipologicamente simile a quello con la Natività della collezione Hernandez (secc. XVIII-XIX): identiche sono la composizione, la tecnica del tratto nero ritracciato sull'incisione, la cornice lungo il bordo della conchiglia, ma sullo scudo del Santo ed in basso, dentro la cornice, sono incise in lingua araba le frasi corrispondenti rispettivamente al motto del santo "QUIS UT DEUS" e a "S. MICHELE ARCANGELO". Non poche perplessità riguardo l'attribuzione suscita la presenza delle due iscrizioni in arabo.

Sappiamo che fin dal Medioevo nel mondo islamico fu frequente l'uso di inserire su talismani, sigilli, ciondoli e pietre di anelli, versetti coranici, speciali formule di preghiera o invocazioni (in caratteri cufici), usanza presumibilmente adottata anche da artisti cristiani nord-africani. La presenza a Trapani di questi due manufatti ci induce a due ipotesi: o che si tratti di prodotti di importazione nord-africana, acquistati dai due collezionisti trapanesi per la loro rarità, o che, se realizzati entrambi in ambito locale, il guscio con S. Michele sia stato destinato ad un arabo (se non addirittura realizzato da un arabo) convertito al Cristianesimo (Novara 1997). 

Nel 1906 il conte finalmente ottiene i locali dell’ex convento dei Carmelitani di Trapani e, dopo averli restaurati a sue spese, vi trasferisce la sua collezione privata, nel 1907 i dipinti della Biblioteca Fardelliana, in gran parte donati da Giovan Battista Fardella alla sua città natale nel 1831, le opere delle soppresse corporazioni religiose .

Nel 1908 riesce ad ottenere dal vescovo di Trapani Francesco Maria Raiti,  presidente dell’Ospizio Marino, il deposito, presso il Museo, di alcune delle opere d’arte , in gran parte ceramiche che il fratello maggiore Antonio aveva lasciato con tutti i suoi beni all’istituendo  ospizio da dedicare al padre Riccardo Sieri Pepoli.

La collezione era composta da un gran numero di albari, piatti, contenitori di uso domestico o di farmacia, servizi  di produzione italiana ed estera e numerosi pezzi siciliani; non mancavano esemplari di statuine settecentesche di porcellana, francese, inglese e di Meissen, alla cui fabbrica apparteneva anche un servizio da the, in gran parte provenienti dalla collezione dello zio Michele.

Alle raccolte del Museo nel 1909 aggiunge pezzi provenienti anche dalla casa-museo di Bologna.

A queste si aggiungono opere che fa donare dal fratello Fabrizio, come il bozzetto del Serpotta e le opere in pietra incarnata, e  vari suoi acquisti: i pavimenti maiolicati delle chiese di Santa Maria delle Grazie e di Santa Lucia; una mensola araba, comprata da privati  e barattata con un tetto nuovo fatto a sue spese; oggetti comprati da ordini religiosi;

cammei e coralli; il cammeo con la testa laureata di Giove, di Carlo Guida, comprato dal fratello di questi; dipinti acquistati dal figlio di Pietro Croce; merletti, paramenti sacri, ricami, acquistati da sacerdoti e religiosi, come si può rilevare da vecchie foto del Museo; la ghigliottina, di cui si vantava e spiegava “ con pedantesca soddisfazione, a detta di Bernard Berenson,  il meccanismo; la Bandiera de Il Lombardo, comprata nel 1900 per 600 lire.

Nel museo sarà poi trasferito anche l’Archivio Pepoli.

Agostino sistema le opere all’interno delle sale restaurate a sue spese, dota il museo di una rendita, nomina conservatore il canonico  Simone Romano.

Il Museo diviene nel 1909 Ente Morale.

Il 23 marzo 1910 il conte Agostino Pepoli muore e lascia alla città di Trapani una grande eredità: il Museo Civico da lui fondato. Il periodico popolare L’Amico che si pubblicava a Trapani, in data 8 aprile 1910 dedica la prima intera pagina a IL CONTE AGOSTINO PEPOLI. L’articolo  di Carlo Alestra  così inizia: “Quando Trapani cominciava a comprendere la grande opera della fondazione di un museo, ecco che quasi improvvisamente muore il suo benemerito fondatore …. Dopo una lunga vita vissuta nei focolari della cultura italiana, dopo avere viaggiato nelle regioni ove impera l’arte e scelto come residenza Firenze e Bologna….. Agostino Sieri Pepoli si ridusse nella sua patria … E gli apparve luminoso il concetto del suo Museo”.

Nello stesso giornale è scritto che il giorno prima di morire, rivolgendosi all’amico Nunzio Nasi, avesse detto …“tu sai quanto ho amato la mia città natia”.

Il consiglio comunale, riunitosi qualche giorno dopo la morte, deliberò di erigere un monumento in onore del “venerando patrizio” e di intitolargli una delle principali vie della città, che è quella che oggi porta il suo nome. Il monumento è il ritratto a mezzo-busto che si trova nella villa antistante il complesso dell’Annunziata  della quale lo stesso Pepoli aveva curato la sistemazione, ed è opera dello scultore Giuseppe Croce.

Si concluse così la vicenda umana di Agostino Pepoli, ma la sua memoria continua a vivere nel museo.

Sarebbe stato contento il conte sapere che nel 1925, per la particolarità delle raccolte, il suo Museo, divenne Regio, in seguito nazionale e che, divenuto Regionale in seguito alla regionalizzazione dei Beni culturali, dal 2010 alla direzione di esso è affidata anche quella del Museo del Satiro di Mazara, dell’Antiquarium di Favignana e dell’istituendo Museo del sale di Trapani.

Rinnovato negli anni 60 ad opera di Franco Minissi  sotto la direzione di Vincenzo Scuderi  da museo- magazzino è divenuto un moderno museo. Ancora una volta è stato rinnovato nel 2010 ad opera di Enrico Caruso, sotto la direzione di Maria Luisa Famà.

Grazie  Conte Pepoli per quello che ha fatto!

I trapanesi e gli studiosi tutti La ringraziano per il dono di questo importante Museo.

 

BIBLIOGRAFIA
 

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Frammenti di un museo disperso: il collezionista Agostino Sieri Pepoli e la ricostruzione della sua raccolta bolognese di disegni e stampe, catalogo della mostra a cura di V. Roncuzzi e S. Saccone, Bologna 1995.

Il Museo Regionale “A. Pepoli” di Trapani. Le collezioni archeologiche, a cura di M. L. Famà, Bari 2009.

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V. Sola, La Collezione Pepoli: note sulle vicende di una raccolta ottocentesca, in “Miscellanea Pepoli. Ricerche sulla cultura artistica a Trapani e nel suo territorio”, a cura di V. Abbate, Trapani 1997, pp. 291-311.

R. M. Stassi, G. Cardella, Collezioni e collezionisti ad Erice attraverso la storiografia locale, tesi per il “Corso per Assistente Tecnico ai Beni Culturali e Ambientali”, Consorzio per il Libero Istituto di Studi Universitari per la Provincia di Trapani, a. a. 1985-1986, relatore prof. Lina Novara.

 

  E’ vietato copiare, riprodurre o utilizzare, parzialmente o in toto, il presente testo, senza la seguente citazione bibliografica: L. Novara, Agostino Pepoli: dalle collezioni al Museo, Progetto Scuola Museo 2011-2012, La cultura della musealizzazione dall'800 ad oggi: il conte Pepoli racconta la sua storia di collezionista, Trapani, Museo Interdisciplinare Regionale ''Agostino Pepoli'',  7, 14 Marzo 2012